Fili e tessuti, cose e simulacri [Lettura del «De rerum natura»] – II – Tommaso Tuppini
![Fili e tessuti, cose e simulacri [Lettura del «De rerum natura»] – II – Tommaso Tuppini](https://cafemontaigne.com/wp-content/uploads/DRN-2-800x500_c.png)
Fili e tessuti, cose e simulacri [Lettura del «De rerum natura»] – II
***

***
Fili e tessuti, cose e simulacri [Lettura del «De rerum natura»] – II
5. Carne e ossa
Le cose non aspettano noi per produrre i simulacri. Lo fanno e basta. Gl’innamorati più o meno corrisposti sanno che non smetteranno di essere colpiti dalle immagini dell’amata, che lo vogliano oppure no. La ragazza è magari dalla parte opposta della città ma le sue immagini attraversano strade, mura, porte e serrature per colpire la nostra anima. Che differenza c’è tra vedere la fidanzata in carne e ossa, e vederla quando è assente? È un pregiudizio e un inveterato abito di pensiero quello di distinguere tra una percezione esterna e una immaginazione interna, fare la differenza tra la realtà e la psicologia. Invece per Lucrezio percepisco la ragazza sia quando è vicina e presente, sia quando è lontana e assente. Non c’è una differenza radicale tra la presenza che vedo e l’assenza che immagino, perché in entrambi i casi si tratta di simulacri emessi dell’amata e che mi toccano. Un sogno notturno può eccitare esattamente come avere l’amata davanti a sé, se non di più, e le polluzioni notturne ne sono una prova (IV, vv. 1054-1056; vv. 1091-1096). Tra sognare, vedere e toccare la differenza consiste nel tragitto più o meno lungo che i simulacri devono fare per colpirmi, ma alla fine si tratta pur sempre di pellicole che investono gli organi di senso oppure, se stiamo dormendo, direttamente l’anima – la quale ha anch’essa la sua textura (III, v. 209) – dopo che ci hanno attraversato la pelle.
L’emissione di simulacri significa una continua perdita di materia per i corpi, ma Lucrezio, oltre a dirne il carattere entropico, la descrive come una specie di copiosità: “ciò che si trova alla superficie trabocca (abundat) dai corpi e di lì lo lanciano via (iaculentur)” (IV, vv. 145-146). Tra le numerose analogie che raffigurano l’emissione dei simulacri, la più ricorrente è quella del sole che butta raggi in tutte le direzioni “perché subito tutte le cose ne siano piene” (v. 162). Il treno dei simulacri è una disseminazione gloriosa che riempie ogni angolo dello spazio. Appunto perché il loro tessuto è leggerissimo e tenuissimo, i simulacri fanno ressa ma senza intasare, “in qualunque tempo ogni tipo di simulacri è lì pronto, e dovunque a disposizione” (vv. 798-799). Se ci punge vaghezza di vedere la fidanzata che non c’è, basta che ci concentriamo un poco e non possiamo mancare quel volto, quei capelli, quello sguardo, perché i suoi simulacri sono già lì, più o meno come i simulacri di ogni altra cosa, pronti per farsi notare. Pensare a qualcuno, immaginarlo, non vuol dire spremersi le meningi per fabbricare la sua immagine con la nostra testa ma setacciare la massa dei simulacri che ci avvolgono e trovarlo. Si dice che dopo la battaglia di Farsalo il volto di Cesare ha brillato per alcuni istanti su tutti i cieli del Mediterraneo. Non c’è niente di soprannaturale in questo, quel che è successo è che in tanti hanno pensato a Cesare nello stesso momento e hanno visto il simulacro vittorioso che li stava aspettando. Non soltanto Cesare, ognuno di noi ha milioni di affiches con la propria faccia che svolazzano ovunque: la nostra celebrità potenziale diventerebbe attuale se soltanto gli altri pensassero a noi un po’ più spesso.
6. Aria
Toccare, vedere, immaginare, in tutti e tre i casi ho a che fare con il tessuto delle cose, si tratta sempre di percezione: qualcosa viene tastato senza distanza oppure visto attraverso i simulacri che ci investono attraverso un interspazio molto ridotto (vedere “in carne ed ossa”) oppure viene visto attraverso un interspazio relativamente grande (“immaginare”). Rispetto agli altri due modi della percezione, il tastare con le dita riduce al minimo il margine d’errore: a meno che io non sia affetto da qualche malattia che mi stravolge, le cose che tocco con le mani sono così come le sento. Invece, nel viaggio che i simulacri hanno fatto per raggiungerci può succedere che gli urti contro degli ostacoli li hanno deformati al punto da renderne irriconoscibile la fonte. Ad esempio: in fondo alla valle c’è una torre quadrata ma le pressioni dell’atmosfera hanno smussato gli angoli dei suoi simulacri e adesso la vedo rotonda (vv. 353- 363). Se siamo a casa e pensiamo al collega che ci vuole fare le scarpe, è probabile che faremo maggiore attenzione ai simulacri dove il volto nel tragitto è stato modificato in modo grottesco. Quando ci sono di mezzo i simulacri la possibilità dell’equivoco è dietro l’angolo, ma non è necessariamente un male, perché l’equivoco significa un certo sganciamento dalla cosa, il fatto che io e il mondo non sempre ci prendiamo (come quando si dice: “quei due fra di loro non si prendono”). Sbagliarsi è una prova che i nodi che ci tengono stretti alle cose non sono vincoli e possono sciogliersi da un momento all’altro.
Le trasformazioni più fantastiche sono quelle subite dai simulacri che incontrandosi nella regione dell’Aria non si limitano a essere modificati ma si cuciono assieme. Questi simulacri fanno come le nuvole che unendosi prendono forme mostruose e incredibili. Essi non hanno alcuna referenza oggettiva, non rappresentano nulla se non se stessi.
Spesso allora appaiono volti volanti di Giganti, che proiettano larga ombra, a volte grandi montagne, e massi strappati alle montagne avanzarsi, e scorrere dinanzi al sole: poi appare un mostro che trascina e guida altri nembi. E non smettono mai di cambiare il loro aspetto, dissolvendosi, e di trasformarsi nei contorni di forme d’ogni tipo (vv. 140-142).
Anche per Platone il carattere simulacrale ha a che fare in primo luogo con oggetti di grandi dimensioni, ad esempio un colosso di pietra i cui piedi devono essere scolpiti più piccoli e la testa più grande del dovuto in modo che lo spettatore veda un essere proporzionato nonostante le deformazioni dovute all’angolo di visuale. Però i simulacri dell’Aria di cui parla Lucrezio sono “grandi” indipendentemente dalle dimensioni, sono grandi perché sono fatti di protesi che continuano ad aggiungersi, la loro natura è di contessersi con altri simulacri e crescere. Ecco spiegate le allucinazioni e il fatto che, se ci concentriamo, possiamo vedere Centauri, Chimere, Scille, Cerberi, e l’intera materia dei sogni: si tratta di simulacri-collages prodotti dal caso (v. 741) i quali, grazie a una tenuitas più accentuata rispetto ai simulacri rappresentativi, durante il sonno attraversano i pori della pelle e toccano il tessuto dell’anima senza la mediazione degli organi di senso. Inoltre, a differenza dei simulacri con una referenza più o meno precisa, non hanno bisogno di colpirci in sequenza: siccome toccano direttamente l’anima, la cui stoffa è più ricettiva delle superfici sensoriali, un unico simulacro-collage è sufficiente per farsi notare.
L’Aria che annoda insieme i simulacri mostra la forza inventiva e combinatoria che la Terra possiede soltanto nei momenti più tardi della sua esistenza. Quando gli anni l’hanno segnata, la Terra non produce più cose nuove, nuove specie di viventi, e si prepara a replicare le forme già fatte: allora, e per un breve tempo, si mette a partorire creature con membra disarmoniche e sproporzionate, incapaci di accoppiarsi e di nutrirsi, macchine celibi sigillate in se stesse (V, vv. 837-854). La fatica della creazione ha sfinito la Terra e i mostri sono il colpo di coda di una physis in procinto di delegare agli stratagemmi della riproduzione sessuata ciò che prima faceva per gemmazione e da sola. L’Aria riprende la tardiva vocazione frankensteiniana della Terra e la rende permanente perché, al contrario della Terra, nessun lavoro l’affatica, né essa può invecchiare. Dentro l’Aria, l’emissione dei simulacri, la spesa che le cose fanno di sé, diventa spontaneamente combinazione, rapsodia. L’Aria si lascia attraversare e turbare (IV, 135) dai veli simulacrali che incontrandosi si contessono, ma torna subito liscia e imperturbata. La Terra è come un operaio che prima o poi si stanca, l’Aria assomiglia a un bambino che non ne ha mai abbastanza di giocare. La daedala tellus (I, v. 7), la Terra-artefice, fa un mestiere, un lavoro. L’Aria, invece, non porta alcun merito per le sue creature folli e imprevedibili, la tessitura dei collages non è arte né ingegno (IV, vv. 792). Di qui il sospetto di Lucrezio – allergico, come tanti poeti, alla bellezza ottenuta troppo a buon mercato – verso le creature dell’Aria. In un battito di ciglia l’Aria produce tutti gl’ircocervi possibili e immaginabili e li mette a disposizione di chiunque, il suo è un teatro senza perimetro dove suoni e visioni si dislocano e raggiungono più o meno qualsiasi posto in brevissimo tempo. Con il lessico di Platone potremmo dire che l’Aria è sofistica, fa come i sofisti, è una cattiva maestra, è pura propaganda e scriteriata perché non sceglie e non seleziona ma piglia tutto, lo mette insieme e ce lo butta addosso.
Gli scultori di simulacri, viene detto nel Sofista, hanno un modello da riprodurre, ma di solito sbagliano perché non tengono presente la sumplokē delle coordinate, il nodo di lunghezza, larghezza, profondità, lo spazio oggettivo del modello. Più che imitare il modello, gli scultori adattano la loro opera al punto di vista dei futuri spettatori, e così “realizzano nelle immagini che essi fanno, non le proporzioni che sono reali, ma invece quelle che possano apparire belle volta per volta”. Adattandosi alla prospettiva di ciascuno, l’oggetto riprodotto perde il proprio statuto di paradigma unico e uguale per tutti. Per Lucrezio ai simulacri dell’Aria spetta la falsità che secondo Platone caratterizza i simulacri in generale ma per ragioni differenti: il simulacro platonico “rimpicciolisce” l’oggetto “grande”, disperde l’oggetto nella moltitudine degli sguardi. Il simulacro platonico perde un potere di referenza che il simulacro- collage di Lucrezio, invece, non ha mai avuto né preteso. Il simulacro-mostro “ingigantisce”, cuce tessuto a tessuto senza alcun limite di convenienza o disciplina, è fin dall’inizio sganciato dal dovere di rappresentare il mondo. Il simulacro-scultura di Platone consuma la verità dell’eidos e ricaccia le anime dentro la privatezza dei punti di vista, quello aereo di Lucrezio raduna folle di dormienti, provoca sogni collettivi e gratuiti cui solo la superstizione vuole assegnare per forza un significato.
Rispetto alla caduta dei fili atomici paralleli dove tutto è separato da tutto, il contessersi dei simulacri nell’Aria significa la situazione in cui tutto può comunicare con tutto. Per Platone la separazione assoluta e l’intreccio disordinato sono operazioni intellettuali andate a vuoto, per Lucrezio sono una realtà, rappresentano i poli opposti del processo naturale che tesse la materia: dalla massima semplicità della cardatura alla massima complicazione di un intreccio senza capo né coda.
7. Parole
L’Aria è la rivale del poeta. La prima fa in modo spontaneo e dilettantesco ciò che il secondo fa con studio, ma la materia di entrambi è la stessa, anche le parole sono vesti simulacrali da cucire assieme. Poetare vuol dire coeptum pertexere dictis (I, v. 418), tessere un argomento con le parole. I nodi delle lettere e delle frasi traspongono su un altro piano – la linea della voce, il vuoto della pagina – i tessuti della realtà. I corpi sono texturae, nodi di elementi atomici e, quando parliamo, la “mobile articolazione della lingua (daedala lingua) e l’atteggiarsi delle labbra” (IV, vv. 551-552) non fanno che riprendere e rendere perspicua la tessitura silenziosa dei corpi.
“Le parole” ha scritto Yves Bonnefoy “nascono d’estate, stagione della muta durante la quale i serpenti abbandonano dietro di sé l’involucro fragile e trasparente” (Bonnefoy, 1987, p. 202). Per toccare le cose con le parole, dobbiamo già essere stati stimolati dai simulacri percettivi, i simulacri verbali vengono dopo. Però, grazie a questo ritardo, le parole rendono possibile il gioco combinatorio più inventivo e arrischiato. Con le parole possiamo evocare i simulacri delle cose senza doverci puntellare sul mondo (Holmes, 2005, p. 559). Il rischio che corre una percezione senza parola è di farsi sedurre in modo del tutto casuale dalle immagini che ci stanno addosso oppure, a causa dell’abitudine, di fare attenzione sempre e soltanto alle stesse cose. Invece, per mezzo delle parole ci destreggiamo dentro la selva dei simulacri percettivi e riusciamo a orientare la nostra attenzione e distinguere. È grazie al relativo désengagement delle parole che possiamo gettare ponti tra le cose che sono reciprocamente distanti e scavare fossati tra quelle vicine: di qualcuno diciamo che è ricco anche se in questo momento non stringe in mano i suoi lingotti d’oro, di un altro diciamo che è povero perché il denaro che ha in tasca gli è stato imprestato. Eventi di parola sono le leggi, i contratti, le istituzioni, cioè i nostri foedera, le congiunzioni tra fatti estranei e le disgiunzioni tra cose affini, che chiamiamo: ricchezza, povertà, libertà, schiavitù, guerra, concordia, ecc. (Serres, 2000, pp. 158-159).
Il De rerum natura vuole restituire attraverso il proprio testo-simulacro la realtà di tutte le cose (Thury, 1987, p. 271). Argomento del poema sono la cardatura degli exordia, l’intreccio dei corpi e i patti degli uomini. Lucrezio chiama i propri versi vestigia parva (Lucrezio 1992, I, v. 102): se ci ricordiamo dell’etimologia di vestigium (l’orma che un vestito lascia sul suolo) possiamo dire che il De rerum natura è un tessuto di “tracce coerenti” in cui s’è impresso il tessuto più o meno slabbrato del mondo. Il tessuto poetico lucreziano è parvus, incomparabilmente più compatto e meglio annodato rispetto ai simulacri dell’Aria che si disperdono tra le nuvole (IV, vv. 181-182). Il tessuto mostruoso e precario che si tesse nell’Aria è di per sé più fedele al tessuto-non-tessuto di un mondo dove ogni annodatura presuppone e anticipa lo sfilacciamento. Però, per dire e comprendere il disordine e l’incoerenza del tessuto-non- tessuto mondano è necessaria la textura fitta del poema, un po’ come per parlare in modo sensato dell’ubriachezza dobbiamo essere sobri. Compito del poema non è mimare il caos fecondo della Natura ma rendercelo comprensibile. È attraverso la memoria esercitata da noi lettori – lo sguardo retrospettivo che tiene assieme i sei Libri del poema – che veniamo a conoscere la smemoratezza della materia, il fatto che innumerevoli tessuti della realtà sono già stati lacerati senza lasciare tracce.
8. Dèi
È sbagliato limitarsi a dire che la teoria atomistica di Lucrezio risente, del tutto o in parte, della prassi della tessitura. La costellazione di senso dentro la quale si colloca il De rerum natura è più ampia, a quel che è già stato detto bisogna aggiungere che la comprensione della realtà come tessuto è anche e soprattutto una eredità mitologica. Il mito è di per sé textura. Non perché è un “testo”, orale o scritto, ma perché l’incontro con il dio, di cui il mito è il racconto, è un evento di annodatura. Walter Otto parlava del Weben, il tessere, di Zeus. Karol Kerényi parlava di Verwobenheit, l’essere-intrecciati di percezione e mondo nell’istante della epifania divina. Gli dèi altro non sono che differenti aspetti del mondo, coincidono con l’essere di quella Natura di cui anche gli uomini sono parte. Gli dèi del mito autentico sono species della “Fortuna che tutto governa” (V, v. 107), figure coerenti del caso, tessuti che resistono dentro la sfilacciatura generale. Divino è il “cadere” e “rapprendere” del mondo in un certo
modo, il dinamismo figurale della Natura. Se è vero che ogni divinità partecipa del tessuto del mondo, Lucrezio si rivolge soprattutto a Venere perché è la dea fabbricatrice di veli, “Afrodite che tesse […], natura madre tessitrice” che fila “l’artistico tessuto del corpo” (Bachofen, 2020, p. 709-712). “I tenaci nodi di Venere” (Lucrezio 1992, IV, v. 1205) producono la più serica e luccicante delle stoffe, ma anche la più scabra e cupa. Venere è la Terra, l’Aria, la Natura, i corpi. Nella visione che Lucrezio ha ispirato a Walter Otto, la dea placa le onde e folgora la superficie delle acque come fossero immenso gioiello. Ella è l’incantatrice divina della pace dei mari e delle navigazioni tranquille, così come lo è della natura in fiore […]. [Q]uesto regno tanto vasto abbraccia tutto l’universo, comprendendo pure l’orrore e la distruzione. Nessuna potenza può portare tanta discordia e confusione quanto costei […]; solo attraverso quest’ombra scura il luminoso incanto di Afrodite assurge a creazione totale (Otto, 2004, p. 99).
L’atomismo è la resa filosofico-poetica delle stoffe del mondo, con le loro pieghe, i volumi e gli strappi. Lucrezio canta il mondo-tessuto e libera il mito dalle pastoie della devozione. Il vero mito sta dalla parte opposta delle due esperienze che per Lucrezio sono le più disdicevoli: l’infatuazione e la religione devozionale. L’una e l’altra equivocano il nodo dell’esperienza e ne fanno una saldatura. Agli uomini che si struggono d’amore Lucrezio consiglia di sconvolgere con nuovi colpi le vecchie ferite e “vagare con Venere vulgivagante” (Lucrezio 1992, IV, v. 1071), comportarsi da farfalloni. Non è l’evento amoroso a essere di per sé un male, ma la viscosità monogamica e compiaciuta. Il devoto cade nella stessa trappola perché vuole sedurre gli dèi, legarli a sé con atti superstiziosi, prendere la loro esistenza libera e ridurla ai termini di una contabilità pretesca. Gl’innamorati patologici e i sacerdoti non accettano il carattere avventuroso e lasco dei nodi che Venere di volta in volta stringe. Comportandosi così, entrambe le categorie finiscono con l’irrigidire il tessuto del mondo, trasformano il nodus in vinculum, saldano le parti come farebbe Efesto [2]. Invece, i nodi atomici e simulacrali – i corpi e le immagini, l’essere e la sua verità – non sono vulcanici ma venusei e nella loro stretta c’è già lo scioglimento.
*

*
*
“Fili e tessuti, cose e simulacri” ha sido publicado previamente en K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, 6 – 1 / 2021, pp. 76-90
***
Tommaso Tuppini
Università di Verona
___________________________
Nota
[2] L’immagine dei cani che dopo l’amplesso non riescono a staccarsi (Lucrezio 1992, IV, vv. 1203-1204) è una versione comica della proposta che l’Aristofane del Simposio mette in bocca a Efesto, il quale così si rivolge agli amanti: “Forse agognate questo, di congiungervi indissolubilmente l’uno con l’altro in una sola cosa, così da non lasciarvi tra di voi né di giorno né di notte? Perché se bramate questo, sono pronto a fondervi insieme e a comporvi in una sola natura fino al punto che da due diventiate uno solo, e finché restate in vita, vivrete in comune l’un l’altro come un essere solo, e quando poi sopraggiunga la morte, là, nel profondo dell’Ade, siate ancora uno soltanto, invece di due, essendo insieme anche da morti”. Saldare gli amanti come metalli è opera vulcanica di morte opposta allo spirito vagabondo e vitale di Eros.
*
Bibliografia
Bachofen, J.J., 2020, Il simbolismo funerario degli antichi, traduzione italiana di Mario Pezzella, Jouvence, Milano; ed. or. 1859, Versuch über die Gräbersymbolik der Alten, Bahnmaier, Basel.
Bonnefoy, Y., 1987, Récits en rêve, Mercure de France, Paris. Dorfles, G., 1971, Senso e insensatezza nell’arte oggi, Ellegi, Roma.
Dubova, S.S., 2017, On The Archaic Meaning of the Word Filum in Apuleius, in “Philologia Classica”, XII, 2, pp. 136-141.
Heidegger, M., 2013, Il “Sofista” di Platone, traduzione italiana di Alfonso Cariolato et al., Adelphi, Milano; ed. or. 1992, Platon: Sophistes, Klostermann, Frankfurt a.M.
Holmes, B., 2005, Daedala Lingua: Crafted Speech in De Rerum Natura, in “The American Journal of Philology”, CXXVI, 4, pp. 527-585
Lackenbacher, H., 1922, Zur Etymologie von filum, in “Glotta”, XII, 1/2, pp. 127-137.
Lucrezio, 1992, De rerum natura, traduzione italiana di Guido Milanese, Mondadori, Milano.
McIntosh Snyder, J., 1983, The Warp and Woof of the Universe in Lucretius’ De Rerum Natura, in “Illinois Classical Studies”, VIII,1, pp. 37-43.
Nail, T., 2018, Lucretius I: An Ontology of Motion, Edinburgh University Press, Edinburgh.
Otto, W.F., 2004, Gli dèi della Grecia, traduzione italiana di Giovanna Federici Airoldi, Adelphi, Milano; ed. or. 1929, Die Götter Griechenlands, Friedrich Cohen, Bonn.
Serres, M., 2000, Lucrezio e l’origine della fisica, traduzione italiana di Paola Cruciani e Anna Jerominidis, Sellerio, Palermo; ed. or. 1977, La Naissance de la physique dans le texte de Lucrèce, Minuit, Paris.
Thury, E.M., 1987, Lucretius’ Poem as a Simulacrum of the Rerum Natura, in “The American Journal of Philology”, CVIII, 2, pp. 270-294.