Sui ponti l’inizio ricorda la fine… [della raccolta poetica «La lingua della città»] – II – Selezione di poesie di Mara Venuto
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Sui ponti l’inizio ricorda la fine… [della raccolta poetica La lingua della città] – II – Selezione di poesie di Mara Venuto
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Sui ponti l’inizio ricorda la fine… [della raccolta poetica La lingua della città] – II – Selezione di poesie di Mara Venuto
La lingua della città, testo a forti tinte, sempre in piena luce, mai smorzato da chiaro-scuri attenuati, suggestivo e reale come un viaggio a lungo programmato, di estrema misura, ma che sa ben scagliarsi contro il dramma endemico di Taranto, a cui l’opera è dedicata e che ne pervade le pagine dalla prima all’ultima. Nella silloge la poetessa canta silenziosamente-ininterrottamente un’oggettualità amara, attraverso ciò che le accade intorno; prende oggetti-vissuti-sentimenti-poesie e li rimpasta con mezzi linguistici sapienti, spesso si rivolge all’uso di figure retoriche di significato, e attraverso questo faticoso e tormentoso percorso di potatura poetica, tende alla realizzazione di una catarsi della parola, donando in tal modo pienezza ai versi. […]
Parole a lungo decantate, fino alla nuda essenzialità, versi frantumati, fratti, che tracciano poche linee portanti, schegge descrittive ferme come può esserlo una barca ormeggiata, con i salsi rollii e beccheggi di sottofondo a testimoniare l’insaziabile irrequietudine, la stessa che anima l’Autrice nei confronti delle ignobili e ataviche ingiustizie subite dall’opalina perla ionica e dalla sua fiera gente.
Ogni processo di decantazione serve anche a donare robustezza, così le immagini si fanno potenti e vivide, nella costante ricerca del frangibile equilibrio tra affanno e parola. Un equilibrio poetico, dunque, che deve prendere le distanze sia dai disastri politici che dalla sua stessa ispirazione, combattuta, giorno per giorno, come una terribile malattia alla quale solo un personalissimo farmaco può recare sollievo, una commistione di coscienza e autocoscienza, di sentimenti e autocensura, di pensieri e tempo dilatato, con il faro sempre ben piantato lì davanti della vetta poetica, e attraverso essa il canto della sete di giustizia. Una poesia, quella della Venuto, che è riuscita a prendere le giuste distanze dalla politica e compie due separati itinerari di viaggio, uno introspettivo, l’altro per le strade, i vicoli e i porti dell’antica colonia dorica.
Maria Pia Latorre
[Dalla recensione su Corriere di Puglia e Lucania]
*
Il buco nello specchio della nascita
la lenta misura dei pesci gettati nel secchio.
Le cantilene dei piccoli a spiegare l’insufficienza
le ragioni di un sottofondo dove dirsi altro,
l’epica della miseria spezzata in una seppia morta,
riconoscibile dall’osso.
Sapere senza vedere, dimenticare
ciò che tacevamo, tacevamo sempre.
*
Nel mare dei miei terrori,
affonda un centopiedi arrotolato
una ruota senza carro è la vita dei bambini
un vuoto allo stomaco,
immergere in un gorgo l’anima morta,
vederla sparire e affiorare in altra forma.
Dietro il pontile,
massi lucidi come lapidi sono talami
dove i ragazzi amano i corpi
e piangono l’abbandono infantile
sotto il piccolo faro rosso
che non fa abbastanza luce ai viventi
*
La pelle è il ritratto delle stagioni,
l’estate ci dimentica, soffoca le telline
sotto piedi avidi a ripa di mare.
Fa male essere bambini,
usare maschere vedere l’abisso
e poi emergere come esseri umani.
Il tempo porta l’eco delle risa a riva,
comanda alle mani invecchiate dall’acqua
di sciogliere col sale le nostre squame.
*

*
Ricordo un braccio di legno torto
sulla ghiaia del molo,
sembrava un pezzo d’uomo
giunto fino alla terra dei malumori.
Il mare sale allo stomaco di chi anela tornare
e finché non torna,
si fa lisca scheggia ulcera
un tormento per relitti da naufragio.
*
Amore tienimi in grembo,
soffi di dandelion nella bocca
alghe per corone tra i capelli
una nenia innocente a cingerci impudichi.
Berci dalla conca delle mani,
le pietre di un dolmen da sgranare
nessuna notte a spegnere le braci,
riconoscerci vittime e farci eterni.
*

*
L’acqua celeste nella gola degli scoli
si perde fra l’indicibile oscuro e l’ignoto
un viaggio che nessuno immagina,
l’innocenza perduta degli anni.
La bocca del poeta è nulla,
una piaga curata e dimenticata
un’afta nel lancinante richiamo alla verità,
un pudore che obbliga al silenzio.
Aguzzi canini le parole.
*
Un’estate di niente, piccole sabbie circoscritte
il tempo dei ritorni avvolti all’origine,
una ruota che rotola lontano fino a cadere.
La notte andiamo, la station wagon ha il telaio sfondato,
attorno alla carrozzeria immacolata non lo vede nessuno
il fosso prima di attraversarlo.
Sulla strada per il mare un deposito di roulotte
mescola ruggine e sale,
una donna fa capo dall’oblò del finestrino,
è una distesa spettrale la terra rimossa dai cani.
Nella piscina della villetta lontana dai guasti popolari
galleggiano bambole con facce hollywodiane
annegate dai piccoli tiranni degli oggetti.
*
*

*
Attraversare dal vetro la città
senza tempo per farsi guardare,
su una vecchia auto bianca prossima alla ruggine,
un nuovo involucro nella rimessa periferica
dove ha senso ogni piccolo pezzo rotto e nessuna integrità.
Andiamo io e mio padre, senza sapere il futuro
su una cinquecento comprata a fatica
rubata sotto casa e ritrovata quando non serviva più.
La vita voleva insegnarci l’amore,
ma parlava troppo chiaro e non l’abbiamo capita.
C’è un palazzo diviso a metà dietro i nostri occhi
una facciata bianca e una nera,
un corpo spaccato in padroni e eroi
a chiederci ancora da che parte stare.
*
***
Mara Venuto
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