Fili e tessuti, cose e simulacri [Lettura del «De rerum natura»] – I – Tommaso Tuppini

Fili e tessuti, cose e simulacri [Lettura del «De rerum natura»] – I – Tommaso Tuppini

Fili e tessuti, cose e simulacri [Lettura del «De rerum natura»] – I

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Manoscritto del De rerum natura [Fonte: https://messe4d.wordpress.com/greenbladt/]

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Fili e tessuti, cose e simulacri [Lettura del «De rerum natura»] – I

Ed è come un tessuto di nubi sotto l’azzurro

Lucrezio

Il Cratilo paragona la dialettica all’arte della tessitura, Socrate dice a Ermogene che le parole servono a separare le cose ma anche a mostrarne i legami. Il dialettico fa come quelli che lavorano a un vestito e hanno bisogno di almeno due operazioni: il lavoro preparatorio della cardatura che separa i fili della matassa, rendendoli paralleli, e la tecnica della spola che serve a intrecciarli. Nel Sofista il compito del dialettico è afferrare con il pensiero e il discorso la sumplokē tōn eidōn, l’annodatura delle idee. Il buon tessuto dialettico distingue e intreccia le parole nel modo in cui sono distinti e annodati i fili della realtà. Un tessuto cattivo è quello in cui trama e ordito non rispecchiano gli intrecci delle cose e dei generi d’appartenenza. Il buon testo riproduce la realtà, le parole sono “segni rivelatori (dēlōmaton) circa la natura delle cose”, rivelano (deloūn) l’intreccio oggettivo delle idee. Nel testo cattivo, invece, i fili si aggrovigliano a casaccio o, al contrario, sono troppo separati per rispecchiare la realtà. Il testo cattivo non è un intreccio di dēlōmata ma un eidōlon, un simulacro.

La hybris del simulacro è quando si rende autonomo, non accetta di commisurarsi al modello e va per la sua strada, i segni prendono a scambiarsi fra loro senza più scambiarsi con la realtà, il segno non rivela più la cosa ma soltanto altri segni. “Nominare iniziale e chiacchiera finale” diceva Heidegger commentando Platone (Heidegger, 2013, p. 599), tragitto dal dēlōma all’eidōlon in cui le parole perdono il potere di rappresentazione e si chiacchiera per chiacchierare, vengono fabbricate immagini senza referente. Soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Novecento la società occidentale è diventata la scaturigine e il ricettacolo di un profluvio di simulacri ai i quali non è possibile – o è molto difficile – assegnare un modello. Nessun’altra umanità aveva visto la medesima figura – il volto di un’attrice, un re in esilio, una zuppa in scatola – replicata milioni di volte in tutti i luoghi dello spazio (Dorfles, 1971, pp. 35-40) e questa cosa ci sembra molto frastornante. In realtà già il mondo di Lucrezio è fatto così: la regione dell’Aria è riempita dai simulacri di tutte le cose e lanciati verso ogni angolo dove c’è un’anima pronta a raccoglierli.

1. Fili

Le cose di Lucrezio sono caleidoscopiche almeno quanto i corpi di Ovidio sono gommosi. Ma forse il caleidoscopio è un’analogia inesatta, perché gli elementi di cui sono fatte le cose non assomigliano a pezzettini di vetro ma a fili. Di solito immaginiamo gli atomi come granelli di materia rigida, piccolissimi, e allora la differenza tra un atomo e le Dolomiti sarebbe soltanto di dimensione. Invece la differenza è radicale perché gli atomi non sono cose, res, per quanto minuscole, ma inizi di cose, primordia rerum. Tutto è materia, esiste soltanto la materia, che però contempla tre livelli: uno stato zero (il vuoto), uno stato minimo (gli atomi), uno stato reale (gli aggregati di atomi, dalle molecole in su). Fin da subito lo stato zero della materia si è tradotto nel suo stato minimo: il vuoto si trova eternamente popolato dagli atomi che, contratti in se stessi, resistono all’infinita dispersione del vuoto. Gli atomi stanno a mezzo tra il vuoto e le cose, sono abbozzi di cose, cose allo stato incoativo. Gli atomi possiamo immaginarli piccoli come zampe di millepiedi oppure grandi come una casa, non è questo l’importante, ci sbagliamo comunque, perché l’atomo non ha misura. Gli atomi sono il primo tracciato di ogni dimensione, sono il moltiplicato contraccolpo della discontinuità dentro la continuità del vuoto. Per raffigurarli possiamo immaginare una superficie incolore, una specie di trasparenza assoluta, che viene qua e là bucata da esplosioni. Oppure un cielo nero attraversato da stelle filanti.

Gli atomi – dice Lucrezio – sono primordia ovvero exordia, due parole che hanno a che fare con l’“ordito” e infatti significano i fili con i quali si comincia il lavoro della tessitura. Primordia rerum alla lettera vuol dire che gli atomi sono i primi fili delle cose, le quali sono dunque dei tessuti. Quando Lucrezio deve spiegare la diversità degli atomi e le loro forme specifiche dice così: “non debbono, ovviamente, esser tutti dotati di uguale tessitura, né simile struttura (pari filo similique adfecta figura)” (Lucrezio 1992, II, vv. 340-341). Gli atomi sono fili ciascuno con la sua forma, che spuntano dentro il grande arcolaio del vuoto, e questa non è una metafora, l’atomo è davvero un filo, anche se è impalpabile. Filum viene dalla radice indoeuropea *figl che è la stessa di figura e fingo, e in latino significa: fibra per tessere, tela del ragno, corda di uno strumento musicale, stoppino di candela, ma può anche indicare l’estensione di una vita oppure uno stile oratorio (Lackenbacher, 1922, p. 132). In Lucrezio filum alle volte vuol dire “figura” e “aspetto”, come quando argomenta sulla grandezza del sole e delle stelle (Lucrezio 1992, V, vv. 581-589), altrove indica la tessitura interna, la struttura di una cosa (Dubova, 2017, pp. 136-137). Filum dice l’interno e l’esterno, la struttura e l’aspetto di una cosa, che differiscono sempre. L’unico caso in cui i due significati coincidono è rappresentato dai primordia o exordia, cioè gli atomi, che non hanno interno o esterno perché sono privi di spessore, ma che annodandosi producono lo spessore delle cose. [1]

A differenza di quelli moderni, nei telai che si usavano a Roma il tessuto veniva lavorato a partire dall’alto e per completare la cardatura – la separazione delle fibre – i fili venivano tenuti in tensione da dischetti di metallo legati al capo inferiore. I fili atomici cadono, pencolano nel vuoto, pesano, sono fatti di gravitas, un concetto che indica subito le due fondamentali tendenze di ogni atomo: rispetto al vuoto e rispetto agli altri atomi. È perché pesa che l’atomo cade nel vuoto e disegna un tragitto parallelo a quello degli altri. Contro l’opinione strutturalista che emerge nel Sofista circa l’impossibilità “che tutto possa essere separato da tutto”, è invece proprio così che per Lucrezio le cose hanno inizio: con la grande cardatura atomica, cioè con la separazione dei fili che precipitano. Anche dopo che la deviazione del clinamen li ha fatti incontrare e hanno stretto dei nodi, i fili atomici conservano la tendenza alla caduta e alla fuga di cui consistono in quanto exordia. L’intima vocazione di ogni atomo è secessionistica. Ogni corpo è un nodo che però presuppone lo scioglimento al quale il tessuto cosale rimane esposto sempre e comunque.

2. Tessuti

“Il tessuto di una cosa”, dice Lucrezio, “ovvero la sua natura”. L’espressione naturam textaque rerum (Lucrezio 1992, VI, v. 997) è una endiadi. I tre macrocorpi più importanti, Mare Terra Aria, sono chiamati tria texta (V, v. 95), le “tre stoffe”. Sono un tessuto le frecce del sole, ma anche l’ombra con la quale la notte ricopre la Terra (VI, v. 852). La natura tessile delle cose è la ragione della loro tenuta e, insieme, della distruggibilità:

una medesima forza e causa distruggerebbe ovunque tutte le cose, se non le conservasse una materia eterna, meno o più serrata nell’intreccio delle sue parti. Un contatto sarebbe causa bastante di morte, perché non ci sarebbero particelle di sostanza eterna, il cui intreccio una singola forza dovesse sciogliere. Siccome molti tipi di intrecci legano fra loro i princìpi, e la materia è eterna, le cose mantengono indenne il proprio corpo, fino a quando vada loro incontro una forza tanto viva che basti a spezzare il tessuto di ciascuna (I, vv. 241-247).

Contextus, nexus, indupedita, textura: è il lessico della tessitura a informare di sé questo passo in cui viene detto che le cose ci sono e durano fino a quando la loro stoffa viene lacerata. Ad esempio, il calore del lampo penetra nell’oro e “in un attimo si sciolgono tutti i nodi e allentano i legami” (VI, 356), la rete interna del metallo si sfilaccia. Il tessuto delle cose può venir distrutto perché al proprio interno custodisce (cohibet) il vuoto (I, vv. 515-517), mentre i singoli fili atomici, non partecipando del vuoto, non possono essere lacerati retexi (v. 529; cfr. McIntosh Snyder, 1983, pp. 38-39). Tra il filo non sfilacciabile dell’atomo e lo scioglimento assoluto del vuoto si installano i corpi, la cui textura ha una tenuta relativa perché partecipa allo stesso tempo di entrambi gli stati della materia.

3. Simulacri

Nell’universo di Lucrezio non esiste un principio fisico o metafisico capace di raccogliere insieme e integrare le membra sparse della materia. Non c’è actio in distans, ovvero una forza (tipo la gravità newtoniana) che fa cadere nel proprio laccio tutti i corpi allo stesso tempo. Le cose comunicano per contatto e il vuoto riesce sempre ad aprire un varco tra le cose, che richiede del tempo per essere attraversato. Il tessuto dell’universo è lacerato, è un tessuto-non-tessuto, e l’annodatura può riguardare di volta in volta solo un ambito circoscritto della realtà. “Il baratro del vuoto è tale che neanche splendenti fulmini potrebbero con la loro corsa, scorrendo nel continuo sfuggire del tempo, percorrere tutto, nel loro cammino, e neppur far sì che per loro si accorci la via” (Lucrezio 1992, I, vv. 1003-1007). Anche la luce ha una velocità finita. Dentro l’universo di Lucrezio, neppure il tempo è un principio unificante. Non esiste una “memoria del mondo” che funziona come superficie di registrazione sulla quale resterebbe traccia di tutto ciò che accade. Il tempo non è un archivio ma uno scuotimento che fa andare i continenti alla deriva: di alcune regioni del passato ci ricordiamo e teniamo conto, altre sono avvolte dalla nebbia, altre ancora si sono inabissate per sempre, “né noi riusciamo a riprendere ciò con la memoria: a mezzo fu infatti gettata una pausa nella vita” (IV, vv. 858-859). Per la materia che è capace di percezione e memoria – gli animali superiori e gli uomini – la dimensione fondamentale del tempo non è la simultaneità del presente, né l’inscatolamento di presente e passato, ma l’essere dopo, il ritardo, lo scollamento tra l’adesso e il prima. Il ritardo è nel tempo ciò che il vuoto è nello spazio. Tranne i corpi che adesso sto toccando con le dita, quelli che percepisco con gli occhi, le orecchie, il naso e l’immaginazione mi appaiono per mezzo di simulacri. È la presenza dei simulacri a spiegare il fatto che la mia conoscenza è in ritardo sulle cose. Che cosa sono i simulacri, come si producono e perché il nostro commercio con essi significa un necessario ritardo della conoscenza rispetto al mondo?

Le cose sono circondate dallo stesso vuoto di cui sono intramate. Il vuoto interno, oltre a essere la ragione della distruggibilità delle cose, è anche ciò che permette loro di non essere ammassi amorfi ma di avere una textura. Il vuoto esterno è il “principio della caduta” (I, v. 339), ciò che permette alle cose di spostarsi, abbandonare un luogo per occuparne un altro, sottrarsi a un incontro e lasciarsi coinvolgere in nuovi. Il movimento di un corpo – anche se, mettiamo, avviene verso l’alto – è sempre una caduta, un cedere, che in latino significa andarsene, abbandonare. Ce ne accorgiamo soprattutto quando le cose ci scappano di mano, scivolano via, si allontanano. Ma le cose scappano anche a se stesse, perdono i pezzi sempre e comunque. I frammenti di questa lenta e inarrestabile esplosione sono i simulacri. I simulacri sono pellicole di atomi che si staccano dalle cose allo stesso modo in cui il sole manda i raggi, il legno che brucia esala fumo e i serpenti depongono la pelle quando fanno la muta (IV, vv. 54-64).

Le ragioni per cui una cosa perde la materia sono due, una esogena, l’altra endogena. Una cosa può essere aggredita da altre cose e in questo modo subisce una diminutio, per esempio quando un’accetta colpisce un tronco e le schegge volano. L’emanazione dei simulacri, invece, accade senza intervento dall’esterno e non c’è modo di fermarla. A che è dovuta l’inarrestabile emorragia? Lucrezio dice: a una parvula causa (V, v. 193), probabile traduzione latina della palsis di Epicuro. La parvula causa è la pulsazione, la vibrazione che riguarda i fili atomici già integrati dentro la textura della cosa. A noi le cose sembrano ferme, invece tremano in continuazione. Per capire che cosa vuol dire, torniamo per un istante a considerare le relazioni interatomiche, il modo in cui i primordia si annodano.

Gli atomi cadono nel vuoto e prima o poi finiscono per incontrarsi, allora possono rimbalzare e respingersi oppure aderire. L’uno e l’altro comportamento dipendono da qual è il coefficiente di viscosità dei fili atomici, cioè da quanto sono hamati (II, v. 394), uncinati, dunque da quanto sono capaci di contessersi, fare presa sugli altri fili. Per le molecole e i corpi più grandi la differente viscosità è dovuta ai pieni e ai vuoti, alle concavità e alle convessità delle superfici. Aderiscono meglio l’una all’altra le cose le cui superfici sono morfologicamente complementari (VI, v. 1085) come succede ad esempio con le pietre e la calce, la colla e il legno, il vino e l’acqua. Ma anche una volta che si sono annodati e hanno “fatto corpo”, i fili atomici non smettono di avere un peso, non depongono la propria tendenza a strapparsi al tessuto. Il sommarsi in ogni atomo della viscosità (gregaria) con il peso (solitario) non dà come risultato la quiete del corpo ma la sua continua vibrazione. Ogni filo del tessuto tende a restare annodato agli altri ma anche a staccarsi. Negli atomi che si trovano alla superficie del corpo la tendenza a staccarsi prevale sulla viscosità perché non ci sono pellicole coibenti che li frenano. Questo è il motivo per cui da ogni corpo – anche dagli dèi – partono in continuazione pellicole che si mettono a vagabondare per lo spazio a una velocità altissima (IV, vv. 30-32).

La natura separatista dell’atomo costringe i corpi a fare sempre nuovo spreco di sé. Ciò spiega “in che modo facile e rapido si generino i simulacri, e continuamente defluiscano dai corpi, e cadendo se ne distacchino” (vv. 142-143). I simulacri sono i tessuti più esterni delle cose, che le abbandonano. Di solito le cose le conosco dopo che i loro simulacri mi hanno investito e, per quanto veloci, per spostarsi da un luogo all’altro devono pur sempre attraversare “l’intervallo dell’Aria” (v. 198). Ecco perché la mia esperienza è sempre in ritardo rispetto alla presenza effettiva delle cose: percepire le cose vuol dire essere stati colpiti dai simulacri, dunque conosco le cose non come esse sono adesso ma come erano qualche istante fa, cioè prima che i simulacri mi raggiungessero. I simulacri ci fanno incontrare le cose “in differita”, anche se magari di pochissimo. Grazie ai simulacri le cose vengono conosciute anche quando non mi stanno letteralmente addosso. I simulacri garantiscono quel relativo scioglimento dalla presenza effettiva senza il quale l’esperienza sarebbe messa davanti all’alternativa tra essere assediata dalle cose oppure non essere.

4. Membrane

I simulacri sono come le ombre luminose che dai velari colorati piovono sulle teste degli spettatori a teatro, “quindi, se le tele emettono tinte dalla superficie anche ogni cosa dovrà emettere sottili immagini […]. Esistono dunque tracce (vestigia) sicure delle forme, che dovunque vanno volando, dotate di tessuto ultraleggero (subtili filo)” (vv. 84-87). Vestigium – qui usato come sinonimo di simulacro – è l’impronta che lo strascinamento della toga (vestis) lascia sul terreno. I simulacri sono dunque le “tracce tessili” che i corpi lanciano ai quattro venti.

I simulacri ci arrivano addosso e toccano i nostri organi di senso permettendoci così di riconoscere l’oggetto, oppure – questo riguarda una specie particolare di simulacri che vedremo tra poco – passano attraverso i pori e toccano direttamente l’anima. Nel mondo di Lucrezio per “essere” bisogna toccare e essere toccati, lo stesso vale per il “conoscere” (Serres, 2000, p. 47). Conoscere vuol dire essere toccati dai corpi e dai loro simulacri. Ogni corpo è tessuto e ogni conoscenza è tatto, anche la verità ricavata dai simulacri. Ciò che caratterizza i simulacri rispetto ai corpi è soltanto la diversa consistenza del tessuto: i corpi sono per lo più una stoffa fitta, i simulacri sono veli il cui spessore è minimo. Il tessuto dei simulacri è così rado che, se ci colpisce per un tempo troppo breve, manco ce ne accorgiamo (come nel regno dei corpi succede con la polvere, lo spruzzo dell’argilla, la nebbia, certe piume degli uccelli, i fiocchi, le carcasse degli insetti più piccoli e “i fili sottili del ragno di fronte a noi” – Lucrezio 1992, III, v. 383). Presi a uno a uno, i simulacri sono troppo tenui per risvegliare la nostra attenzione. I simulacri sono percepibili soltanto in sequenza, devono cioè battere e ribattere sugli organi di senso prima che li captiamo e riconosciamo (fanno eccezione i simulacri dell’Aria e quelli che vediamo in sogno).

Ogni corpo – la pietra, le radici delle piante, le vette delle montagne, il fegato di un animale, la zampa – produce simulacri. Massimamente riconoscibile è il simulacro dei corpi superficiali, liminari, ad esempio la pelle oppure la corteccia degli alberi. Un privilegio dei simulacri emanati dalle superfici è che sono “capaci di lanciarsi in quell’ordine in cui erano conservando l’esterna figura” (IV, vv. 68-69). Ovvero: un simulacro che proviene, mettiamo, dal fegato di un animale fa una certa fatica a venire allo scoperto e gli ostacoli che incontra sul cammino lo disintegrano. I simulacri delle superfici, invece, tendono a conservare la propria forma. Siccome davanti a sé non trovano ossa o tessuti troppo fitti, possono viaggiare per un certo tempo senza perdere l’aspetto iniziale, dunque permettono di riconoscere con facilità il corpo che li ha emanati. Un corpo non è soltanto là dove lo stringono i suoi confini fisici, perché sta agendo anche per mezzo dei simulacri che a ogni istante lo abbandonano e possono raggiungere distanze notevolissime. Date certe condizioni – assenza di ostacoli oppure la presenza di ostacoli particolarmente porosi – non c’è limite al tragitto che i simulacri possono coprire.

I simulacri sono una specie del genere di cose che sono le membrane. Nel processo ininterrotto di auto- organizzazione della materia, la membrana ha una funzione fondamentale perché separa l’interno di un corpo dal suo fuori, regola i flussi che entrano e quelli che escono. La Terra appena nasce si copre con la membrana della vegetazione, piante, alberi, ecc. (V, vv. 783-784). Anche gli animali sono parti della membrana terrestre e ciascuno di essi è a sua volta imbozzolato dentro una membrana: gli uccelli, il cui embrione è protetto da un guscio di calcare e gomma, vengono al mondo mettendo le piume, i mammiferi, cui nei mesi della gestazione ha fatto scudo il ventre delle femmine, hanno setole e peli, “quasi tutte le cose sono protette o da cuoio, o anche da conchiglie, o da pelle robusta, o da scorza” (IV, vv. 935-936). I vestiti che ci fabbrichiamo e le abitazioni sono gli analoga delle membrane naturali e servono principalmente a conservare il calore. Ma anche ciò che non ha una membrana protettiva – la pietra, il libro, il sole, il mare – emette membrane: i simulacri sono le membrane mobili delle cose e se vengono intercettati da un essere senziente funzionano come un tessuto connettivo tra lui e le cose. Le membrane biologiche mettono in comunicazione l’ambiente interno e l’ambiente esterno di un corpo, le membrane simulacrali mettono in comunicazione un corpo qualsiasi e un corpo senziente.

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Tommaso Tuppini

Università di Verona

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Nota

[1] Lucrezio rifiuta di tradurre atomos con particula (come invece fa Cicerone) perché non ha la comprensione particellare-galileiana dell’atomo che oggi ancora gli attribuiamo. Su questi problemi cfr. Nail, 2018, p. 11 e passim.

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