Sui ponti l’inizio ricorda la fine… [della raccolta poetica «La lingua della città»] – I – Selezione di poesie di Mara Venuto

Sui ponti l’inizio ricorda la fine… [della raccolta poetica «La lingua della città»] – I – Selezione di poesie di Mara Venuto

Sui ponti l’inizio ricorda la fine… [della raccolta poetica La lingua della città] – I – Selezione di poesie di Mara Venuto

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Sui ponti l’inizio ricorda la fine… [della raccolta poetica La lingua della città] – I – Selezione di poesie di Mara Venuto

La lingua della città è il canto di dolore della città di Taranto: un dolore fatto di esistenze spezzate, di paesaggi aridi e devastati, di vite di operai cariche di dignitosa amarezza. Un canto di dolore pacato, che attinge musicalmente alla migliore tradizione del Novecento italiano per delineare uno stato d’animo di virile sconfitta e di perenne contatto con la morte. Lontana dal fare una poesia di denuncia, Mara Venuto scrive versi interiorizzati, ma scavando non solo nella propria interiorità, ma in quella dei protagonisti di un’aspra storia collettiva. Perfino la materia, per lei, perfino il paesaggio e gli strumenti di lavoro hanno un proprio nucleo interiore.

Come nella narrativa di Steinbeck, l’essere umano, la gatta sporca, i gabbiani e la casa, insomma le bestie e il paesaggio fan parte con gli umani di una medesima vicenda, sono trascinati dal medesimo destino e osservati con lo stesso sguardo concreto, intriso di realismo e di lirismo: “Una rabbia strugge l’anima delle cose, / cola sotto i marciapiedi vuoti, si insinua / fra i vicoli, cade dal bordo di un molo / diluisce il sale”; “Il quartiere ha perso il calco della sua giovinezza”. Altro protagonista è il tempo, il tempo perduto e sprecato di vite fatalisticamente rassegnate.
Ma anche il tempo dell’attesa di un evento miracolistico, di segnali e varchi – spesso attinti alla tradizione della cultura popolare – da cui scaturisca un senso a questa vita che “parlava duro e non l’abbiamo capita”. Questa materia è padroneggiata dall’autrice con sensibilità e senso della misura, con un controllo che non esclude potenti squarci verbali.

La raccolta si chiude con l’autodenuncia della poetessa che sente l’impotenza della parola -e dunque l’inanità del proprio ruolo- di fronte alla tragedia, ma significativamente la poesia conclusiva, iniziata con un Io, si conclude al Noi, a voler dare l’ultima parola alla dimensione collettiva e plurale del dolore.

Giorgio Galli

[Prefazione a La lingua della città]

*

Mara Venuto [Fotografia di Dario Flore]

*

Ricevere lettere dalla nascita
leggervi un anatema che odora di sale,
una vita affacciata alla finestra
il quadro di una radura affollata di macchine.

Nel dubbio parlare con gesti eloquenti che
nessuno comprende, è una grazia immaginare la voce
non temere le parole,
riposare.

Scambiarsi due vertebre adulte
fino a farne una colonna poggiata sull’amore.
Ostinati vedremo corone in mezzo ai detriti e ai denti,
un’eco di salvezza per naufraghi terrestri.

Le nostre scarpe rotte riparate troppe volte
faticheremo a gettarle, come fossero sacre
intrise d’aria e umori, un ritratto di ambizioni innocenti.

Infine dimenticheremo tutto.
Perdoneremo ogni assente.

*

*

Sui ponti l’inizio ricorda la fine,
il verso comincia dove giunge,
nel mezzo la luce cade e
si rintana nel grembo della madre.
Non ha cresciuto figli,
li ha lasciati al buio della strada
alle fiamme del camino, il più feroce dei focolari.
Quegli orfani amano come Dio,
non ricordano, hanno pietà,
scrivono sulla polvere la lingua della città.

*

Guardarsi dentro, trovare cosa.
Sentire la città, i suoi cani innocenti
le piazze periferiche e nessuna bellezza da dimostrare,
quattro alberi in croce a ricordare la volontà di Dio,
i portoni sporchi a riflettere l’estraneità.
Si ferma a questo il coraggio.

*

La città non mi ha insegnato la sua lingua,
non ho voluto impararla, fa paura
ascoltare il suono dell’abisso,
il buio nella gola che inghiotte.

Quella è la voce della città quando chiama,
la notte è come il giorno, la luce si chiude
alle palpebre, e i bambini tra le mani
chiedono la luna e bevono la vita,
mentre noi siamo sabbia che vorremmo sommersa.

Ad Alessio, 17-08-2019

L’elica sembra si stacchi
pende una falce sulla schiena dei vagoni
come buoi stesi a riposare.

Dall’alto l’aria è immobile,
un muro di fatica sulle spalle degli operai,
se troppo duole il morso e i piedi hanno
sandali di ferraglia inutile.

Sfatti si lasciano prendere dal sonno
è una nenia la pala che rotea lontana,
non fa rumore, e il vento è un odore
che sfama i cani.

*

*

*

Si fa notte nel vicolo stretto,
dove si passa da santi
con le braccia della resa in croce sul petto.

Opporsi al senso di inutile,
sotto il padrone che dice grazia o morte.

Capire la vita il suo passare da parte a parte,
nel vicolo dalla postierla al mare
nel vuoto e ciò che è stato
quando nessuno aveva un nome,
il nome e chi lo chiama, innocente in utero.

*

Anima mia anima del suolo
gretto pestato fratto.

Una nenia scolora la luce
cade dai rami in gocce di tempesta,
una pozza si apre un varco
dove calzare i piedi,
uno specchio per le ombre
romperle e lasciare il vuoto
un istante prima della nuova forma.

Gli acuti riempiono le bocche
escono fantasmi di generazioni e intenzioni,
e i giovani aironi lasciano la terra.

*

Sulle barche dei pescatori le intenzioni
sono catene da ormeggio gettate sulla banchina,
un dolore di metallo pesante dentro le ossa.

Chinarsi a cercare l’anello perduto,
scavare con la mano nel sale
trovare la fede sotto le unghie.

Al solito crocevia dopo il ponte
le braccianti aspettano le doglie a occhi chiusi,
a terra una busta dorata evoca un’alba letterale.

*

*

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Mara Venuto

Categories: Literatura

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