Catalessi della disperazione
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La maggior parte della sintesi di una vita rimane occulta agli occhi degli altri. Comunichiamo ciò che desideriamo che gli altri conoscano di noi, ma alle volte, manifestiamo solo l’ater-ego e in modo impacciato entrando in confidenza con l’altro emaniamo la nostra vera realtà, costituita da debolezze e sofferenze. Ma si sa, vivere la sofferenza e manifestarla significa mettersi in gioco, così ci costruiamo cattedrali linguistiche di difesa a questa verità e ci ammaliamo nello spirito.
Poi c’è da dire che i nostri meccanismi empirici, ci portano a perpetuare nell’errore, ci portano a discernere ciò che noi consideriamo dannoso, creando una falsa scala di valori riguardo il concetto di “bene”.
La disperazione gioca un ruolo fondamentale nel processo di crescita psicologico, la disperazione è in qual modo, il nostro marinaio interiore che vede terra dopo un lungo viaggio in mezzo al mare, rappresenta lo sgomento della totalità, la certezza del dubbio, la cosciente paura di non sapere nulla. La disperazione è l’inizio di un viaggio, la disperazione è l’epinoia della verità che bussa alla tua porta. Se l’hai conosciuta, se ci sei arrivato, non temere, stai per risvegliarti da un incubo una mattina di primavera.
Siamo esseri tragici, la tragedia è antropologica quanto lo è il dramma, quanto lo è in effetti la sua manifestazione ultima: disperazione.
In effetti penserete che nella vita bisognerebbe essere felici, certo come non potrei essere in accordo con voi, ma la vera felicità è uno stato d’animo, una scelta.
Faccio appello ad un esperto storico di pensiero disperante citando parti di “La malattia mortale” di Kierkegaard:
“Se non ci fosse niente di eterno nell’uomo, egli non potrebbe affatto disperarsi; ma se la disperazione potesse distruggere il suo io, nemmeno esisterebbe disperazione.”
L’ambivalenza antropologica consiste nella dualità, questa scissione in effetti ci permette di essere coscienti ma di soffrire, ma non di una sofferenza corporea, ma esistenziale, la stessa che ci permette di comprendere la tragedia e la sua emanazione ultima: disperazione.
Ritornando a Kierkegaard:
“Questo è lo stato dell’anima in disperazione. Per quanto questo sfugga al disperato, per quanto gli riesca (il che vale soprattutto per quella specie di disperazione che ignora di essere disperazione) di perdere completamente il suo io e in maniera che questo non si faccia sentire per niente, […]. E così deve fare l’eternità; perchè avere un io, essere un io, è la più grande concessione fatta all’uomo, ma, nello stesso tempo, è ciò che l’eternità pretende da lui.”
Sarebbe perciò degno d’ammirazione riconoscere a noi stessi che questo sentimento apparentemente nichilista è l’inizio della comprensione dell’eternità che vive in noi.
Meglio di tutti forse, nel lontano ma contemporaneo più che mai 1925, Giuseppe Ungaretti in “Sentimenti del Tempo” scriveva questi versi ermetici che rappresentano egregiamente e misteriosamente una vita di sofferenza, ma una vita viva di comprensione del dolore esistenzialmente incomprensibile:
“FINE
1925
In sé crede e nel vero chi dispera?”
Oppure altro esempio lampante è:
“PARI A SÉ
1925
Va la nave, sola
Nella quiete della sera.
Qualche luce appare
Di lontano, nelle case.
Nell’estrema notte
Va in fumo a fondo il mare.
Resta solo, a pari a sé,
Uno scroscio che si perde…
Si rinnova…”
Allora forse consideratemi fesso, allora forse consideratemi folle. Fate inoltre molta attenzione al termine fesso, giacché la sua etimologia deriva dal latino fissus (participio passato) di findere ossia dividere, spezzare. Sì, insomma, siamo “divisi” dall’eternità poichè mortali però gioviamo della comprensione cosciente della verità e codesta ci rende sofferenti e vulnerabili. Allora vi dico, soffro sorridendo, chiamatemi fesso, ma sono vivo!
Tutto questo articolato ragionamento è in realtà ciò che preferisco dire in una poesia:
CATALESSI
Cosa stai guardando?
Mondi surreali ove non esiste regola.
La finestra dell’infanzia
mi salutò da un’oscura grazia,
non abbiate timore
solo dimenticai l’amore,
anzi no, l’amore non si dimentica
solo alle volte la nube del terrore
abbaglia l’aggressivo processo dell’onore…
ma siam granelli di nulla
nella totalità dell’amore.
Nascondiamo l’intimità
occultiamo la perversione.
Abbiamo paura della sincerità
giudichiamo le nostre emozioni.
Sarebbe semplice sostituire
facilitare forse felicemente
desideri dormienti disprezzanti
consigli coscienti costanti
che nascondere a noi stessi
con ipocrisia e catalessi
che a parte ad esser complessi
siamo anche fessi!
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Alessandro Spoladore