Il Corvo e Il Cigno – Alessandro Spoladore

Il Corvo e Il Cigno – Alessandro Spoladore

Il Corvo e il Cigno *

 

 

 

Il malaugurio quella notte sospirò attraverso una fredda brezza accarezzando ogni angolo di saggezza di Oxford, un uomo misterioso, ricoperto da un lungo mantello color ebano dai riflessi violacei luminescenti, passeggiava per i vicoli della città con una lanterna incantevole e gli angeli dipinsero la luna con la musica delle loro celestiali trombe. Una sinistra quiete paralizzò il vento e vidi il passato girovagare per le strade, in fretta e furia mi avviai verso la mia dimora prima che qualche spirito estraneo potesse privarmi dell’anima mia.

L’incubo levogiro travolse il mio sonno e caddi in un mondo ahimè sconosciuto, la realtà divenne sogno e il sogno divenne realtà, fu così che incontrai l’uomo della lanterna incantevole e gli chiesi senza indugiare:

– “Dove mi trovo oh buon uomo?”

“Qualcuno forse ti ha confermato la mia benevolenza? Ti rivolgi così ad ogni sconosciuto? Probabilmente sei estraneo a te stesso se mi hai incontrato. Ti trovi ad Oxford! Ogni specchio che troverai è deformato dalla conoscenza.”

– “Dove si trova Oxford?”

“Oxford si trova nel dialogo tra un corvo e un cigno”.

Svanì nel nulla come l’incubo svanisce all’alba di una serena primavera.

***

Quella mattina, grazie a Dio il verde speranza straripava e si rifletteva nel torbido grigiore di un cielo dimenticato dal sole, creando una mite e fredda sensazione di eterno autunno.
Dietro il mistero dell’immensa conoscenza della città la locuzione “Domus illuminatio mea” è un fatto, tutti noi lo intuivamo, i “colleges” come grandi cattedrali alla sapienza, sono i punti nevralgici e celebrali, librerie e biblioteche sono le arterie di questo enorme “Corpus Christi”.

Corvi e cigni sono i messaggeri di Oxford, quel pomeriggio rimasi stupefatto nel vedere le magistrali piroette dei neri corvi, si intercambiavano informazioni con il loro tetro e ammaliante gracchiare.

Fu in quel momento che vidi un corvo accingersi ad abbeverarsi nello stesso lago ove un cigno scivolava nello specchio del cielo.
Osservatore di questo maestoso incontro rimasi prigioniero dello sguardo che si diedero il cigno ed il corvo, si narra che quel momento durò eoni, anche se furono solo pochi istanti ed un dialogo nacque da questi due mitologici volatili. I ministri di Apollo erano decisi a manifestare la loro bellezza spirituale con un volo divino mentre i guardiani della conoscenza gridavano al vento il malaugurio e la morte, confondendo così gli spiriti dell’oltremondo mentre Odino sedeva ad ammirare.

Cigno

“Sei venuto a porre in dubbio il mio indiscutibile e sublime planare? Sono qui per rimembrarti che non avrai mai il mio spirito alare. La Bellezza consiste in un piumaggio millenario, in una mitologia spettacolare!”

Corvo

“Eletto, misterioso, malaugurante e necessario è il mio gracchiare. Tu ti pavoneggi amico mio e questo termine per te è al dir quanto dispregiativo. Poco m’importa del tuo divino piumaggio giacché pur qualcuno dovrà cibarsi della scoria prodotta dalla conoscenza. Pochi sanno che la conoscenza è la signora della notte ed Ella produce morte. Io mi cibo della morte e proteggo gli arcani segreti della sapienza. Se così non fosse il tuo bianco e splendido planare sarebbe simile alle foglie rosse e secche dell’acero che così piangendo in un specchio di malinconia autunnale denota la sua sottomissione alla signora della notte.”

Cigno

“Lungi da me essere spettrale! Hai perso la memoria nel tuo spirito autunnale? Forse non ricordi che io vivo nell’eterna primavera? Ti dovresti inchinare giacché non vi è morte senza il mio nobile e silenzioso creare. Hai approfittato del settimo giorno per mangiare mentre io sono il soffio divino del primo giorno.”

Corvo

“Fosti la luce del primo giorno, quella stessa luce necessaria per illuminare la mia spettrale essenza, che ti ha permesso di collocare ogni tua creazione; alla fine amico mio i nostri occhi sono tessuti dalla stessa spola, l’essenza del mistero: la vita e la morte, il caos e l’ordine. Ci hanno ingannato maledizione!”

 

Se ne volò via maldicendo con il suo “Kraa! Kraa!” rauco e tetro mentre il cigno posava elegante e composto senza torcere una piuma.

Un alone di mistero accolse la notte e l’uomo arcano apparve per illuminare l’oscurità con la sua lanterna incantevole, passeggiando nell’enigma di un cimitero sprofondato nell’edera un nome apparve da una lapide corrosa dal tempo:

CHARLES
WALTER STANSBY
WILLIAMS

Poet

20 Sep. 1886
15 May 1945

UNDER THE MERCY

 

Un poeta, un corvo ed un cigno rimasero intrappolati dalla notte e l’unica speranza era un solitario tulipano nero che non sapeva volare né cantare. Sì. Un nero tulipano fu colto quella notte dall’uomo dal mantello color ebano. Nessuno sa cosa si dissero però risuonò ovunque per Oxford la “Passione secondo Giovanni” di Johann Sebastian Bach.

“Herr! Herr! Herr!”

Fu in quel momento che capii la frase del vagabondo. Fu allora che capii che Oxford è un tulipano nero colto da un poeta, il dialogo tra un corvo e un cigno.

***

Questa storia narrata in forma di prosa poetica è la sintesi ontologica dell’esperienza vissuta ad Oxford a maggio dell’anno corrente insieme al compositore Josué Bonnín de Góngora e al poeta e filosofo Ilia Galán. Colgo l’occasione per ringraziare a Bonnín de Góngora per il suo sublime orecchio assoluto che mi ha permesso di potenziare la lirica delle mie poesie soprattutto in quel fatidico momento in cui “l’usignol canta” che con la sua grazia libera il pensiero costruito per immergersi nell’immensità passando così dallo stato meditativo a quello contemplativo.
Il testo a seguito fu concepito originariamente come discorso introduttivo alle poesie lette ad Oxford e come ringraziamento a Galán. Colgo così l’occasione per esporvi l’introduzione ermetica all’interpretazione delle tre poesie che esporrò per iscritto come ricordo di questo viaggio empirico nei labirinti vertebrali dell’ontologia della poetica viva.

***

Sono immensamente grato di poter esporre parte del mio pensiero qui con voi. Grazie Ilia Galán, mente d’alto intelletto, che la provvidenza ti accompagni sempre e che la storia ti ricordi eternamente.

“Meminisse est rem commissan memoriae custodire; at contra scire est et sua facere quaeque nec ad exemplar pendere et totiens raspicere ad magistrum.”

“Ricordare significa serbare qualcosa che è stata affidata alla memoria; sapere, invece, vuol dire interiorizzare ogni acquisizione senza dipendere da un paradigma e ricorrere ogni volta a un maestro.”

Lucio Anneo Seneca,
“Epistulae Morales ad Lucilium”

 

La domanda che mi sorge è questa: e se l’essenza del paradigma fosse una menzogna?

Se lo stesso paradigma si basasse nella negazione della Verità non sarebbe allora la stessa realtà un paradosso?

Non è forse l’essenza della vita stessa la morte?

I cosiddetti maestri non trasmisero per iscritto la loro sapienza ma solo attraverso un linguaggio trascendentale basato nella comunicazione empirica trasmessa da un’azione empatica. La parola redentrice, il simbolo vivo.

Qual è quindi la porta magistrale per accedere a tale conoscenza?

Ovviamente per esprimere ciò che penso a riguardo, paradossalmente al mio intro, utilizzerò paradigmi ed esempi conosciuti affidandomi così alla memoria.

Sia quindi Goethe che parli:

 

Mefistofele

“Parte di quella forza che vuole sempre il male e produce sempre il bene.”

 

Faust

“Cosa vuol dire questo indovinello?”

 

Mefistofele

“Sono lo spirito che nega sempre!
E con ragione, perché tutto ciò che nasce
è degno di perire.
Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla.
Insomma, tutto ciò che voi chiamate
peccato, distruzione, in breve, il male
è il mio specifico elemento.”

 

Nella sfera dell’Eterno nulla nasce e nulla perisce. L’esperienza dell’eternità, dell’infinito, è una sfera consacrata all’infanzia, alla follia e alla saggezza. Così son le tre fasi che abbiam da percorrere: l’infante, il folle e il saggio. La trinità filosofica che coincide in un solo concetto: quello di Unità. A sua volta come un sole splendente irradia i suoi raggi con differenti concetti paradossali: infinito, ineffabile, impronunciabile, inesprimibile, incomprensibile, impenetrabile, indecifrabile.
Dobbiamo senza dubbio alcuno confrontarci con la materialità esistente, parte fondamentale della nostra esistenza. Da qui la nostra dicotomia: esseri mortali e finiti che serbano una scintilla d’eternità. Siamo vibrazioni in tensione costante. Perfettibili ma non perfetti.
Sembra proprio che la nostra esistenza formi parte di una grande tragedia, un grande dramma.
La poesia sicuramente è uno degli strumenti più efficaci per esprimere questa dicotomia paradossale, chiamata vita. Inizierò però con un piccolo testo di prosa poetica cosicché si crei l’atmosfera corretta all’intendimento della mia poesia. Ringrazio la vostra attenzione:

“Destinato ad isolarmi nella rurale vita dell’eremita per comporre una poesia,
ho perso la via nel sole tramontato dietro i monti.
Morte prematura e benvenuta ti ringrazio,
Poiché solo attraverso questa eresia ho compreso la dolce e semplice via
di un viandante che ha trasfigurato la putrefazione
di un mondo destinato alla deriva, abisso infernale,
sublime canto di disperato amore.
Sei confuso?
Anche io lo sono, ma continuo a camminare
poiché ho inteso che la vita è la prova empirica della stessa essenza che,
colta in flagrante, denota un certo imbarazzo nel vedersi rispecchiata
in una putrida palude battesimale.
Poi forse abbiamo errato e dimenticato,
ma la rinascita è una costanza senza precedenti,
con gran stupore ci rispecchiammo nella limpida fonte da dove nacque il giglio;
dalla palude nacque un fiore di loto ed ogni parola appartenne all’ignoto,
l’uomo iniziò a parlare e perse il senso della stessa.
Ora vaghiamo come dei re e viviamo come degli schiavi, pensando di sapere il Nulla e sottovalutando il Tutto.
Universo di una totalità sublime salvaci dalla nostra idiozia e mostraci la via!”

Sospiri di tempi passati soffiano attraverso una brezza di piombo sopra le nostre anime rivendicando vendetta e giustizia per le atrocità commesse, ma la crudeltà sembra non avere fine per la nostra specie. Ma alla fine dei conti alla natura poco importa della nostra crudeltà, semplicemente come il movimento oscillante del pendolo del cosmo, la legge di azione e reazione compie il suo moto senza troppo interesse della nostra mancanza di coscienza.

La natura però, è madre fertile per il nostro intelletto. Di fatto l’etimologia della parola intelletto proviene dal latino intellegère, questo Noûs che ci muove a leggere tra le righe, questo intelletto che gravida la natura con la sua Ars, che mette in moto attraverso la volontà cosciente l’Opera Magna della natura: l’anima. In senso collettivo nulla è più esaustivamente corretto per definire il riflesso della collettività psichica con il termine: ARTE.

È pur tragicamente vero come, in determinati periodi storici la povertà di spirito si manifesti nella sua opera massima, ossia l’arte, com’è d’esempio il nostro periodo storico. Viviamo un’epoca sintetica ove il processo stesso della sintesi si riduce ad un’effimerità caduca e costante che ha portato ad annientare il metodo analitico, il sistema si è invertito ed ora ciò che è semplice è divenuto complesso e ciò che è complesso è di facile acquisizione, il desiderio aumenta e la soddisfazione diminuisce. Divoriamo ogni emozione barattandola con l’efficienza di un sistema profondamente putrido, corrotto e malevolo, mascherato nel nome della libertà.

Ma non voglio più dilettarmi nella povertà di questo periodo storico bensì vorrei parlare della nuova era che ci attende, poiché nei periodi di maggior povertà è dove nasce la maggior ricchezza. Stiamo per rivivere il punto zero, la nascita di nuovi eroi, la formazione di nuovi geni. Il serpente già si è morso la coda e forse è giunta l’ora di rompere la catena biblica della colpa dei padri. Qualcuno ancora deve pur crederci.

Eternamente.

Grazie.

 

Alessandro Spoladore

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Nota

* La versión española de este relato puede encontrarse en https://editorialsapereaude.com/libro/relatos-de-el-trueno-dorado_52318/

Categories: La Stravaganza